At this time of the year, human-like effigies can be seen outside the houses. Placed on chairs, they are accompanied by a small sign, often incomprehensible. The people passing by stop to observe them and read that cryptic message with a spontaneous and calm display of cheerfulness. These puppets are left outside on the street for a while, likely to mature, until they are all together hoisted onto a pile of wood and then burned. On that occasion, hundreds of people gather around a large bonfire and, separately, pork aggregates called “sausages” are also cooked. Everybody eat and drink copious amounts of fermented grape juice, shouting in surprise and encouragement as the flames reach one effigy or another. Despite the inexplicable waste of organic fuel, a general atmosphere of euphoria can be observed. The event seems to particularly excite the young ones, who chase each other and play around the fire, sometimes causing themselves minor burns.
Best before #1
Yesterday, I woke up in the middle of nowhere. It was like one of those times when you sleep away from home, and when you wake up, you have no idea where the hell you are. Except for me that feeling hasn’t gone away. It’s been lingering since yesterday, since I woke up in a room covered with posters, and I can’t remember how I ended up here. The biggest problem is that there’s no one around to help me figure it out. It’s deserted. I went out for a walk, and the houses in this village are all uninhabited. Perfectly clean and tidy, but empty. Pantries full, tablecloths freshly ironed. I’m not exactly sure where I am. It seems like a small provincial town. It’s summer and the heat is unbearable. There’s no sound at all. Behind the house there’s a field and, in the distance, I think I see a road, but there are no cars passing by. Silence.
I rode up this hill on a mountain bike I found in the garage. Naturally, it was ready to go. There’s an abandoned house here, with some of the doors bricked up and surrounded by weeds nearly five feet tall. Through the open windows, you can see walls covered in red and green spray paint. It was probably a hangout for some lost souls. Behind the house there’s a sort of barn made of bricks and a small stable. The stable door is slightly ajar, with a heavy, rusted chain dangling from the handle. I go in, hoping to find someone. I find myself. In a glass case. There’s a tag attached to the base of the display. ID No. 38493 Best before 2026.
Tao
It appeared just like that, out of nowhere. I was checking if the marvel of Peru had opened, and there it was…in its usual spot, on the roof of E.’s house. It was licking its whiskers. I’m sure E. had just given it the scraps from dinner. E.’s wife is hopeless in the kitchen, but for Tao, it’s a feast fit for a king. It saw me on the balcony and, for a moment, it stopped to stare at me, then it went back to cleaning itself with its white-streaked paws as if it had dipped them in a can of paint. I moved the small Tibetan bells slightly and it perked up its ears….but with indifference, not turning around. That sound is familiar to it, and I’m sure it will come home sooner or later. But not now. It knows it was me. It’s the only one who knows, and that hurts even more. I haven’t gone down to the cellar for two days…the smell is starting to rise up the stairs, and I’d better clean it up tomorrow. There’s just one thing holding me back…I don’t want to erase the red footprints left by Tao. Not yet.
Bitter
Mi sono trovato così, per caso ad assaggiare la vita. Percorrevo la strada bagnata che portava allo zoo, i lampioni, solo qualche foglio di giornale per terra. Solo. Non ci pensavo, ancora, sarebbe stato il giorno dopo, ma mi sembrava talmente lontano, che non ci pensavo. L’acqua che mi bagna le scarpe, l’acqua che mi separa dal chaos. Cammino lungo la via e credo di rivedere Lee. Troppo tardi per piangere, per ascoltare una canzone che non comincia per… Mi scopro debole, mi scopre la luce dell’alba che schiarisce la mia giacca, ma non importa, è già domani ed è quasi ora di scegliere su quale barca salire. Ho anche un’ombra che mi segue che mi sorpassa che sparisce se provo a parlarle. Tanto non è questo, tanto la mia scelta l’ho fatta ed è quella di essere, semplicemente, essere. Il fiume, il vento che si alza, il profumo dei forni, un gatto che mi osserva da un angolo della strada. Le cose che come un violoncello mi scolpiscono l’umore. Raggiungo il ponte, non ho fretta, ancora lei nella testa, non se ne vuole andare. Come una caramella amara che non finisce più.
Memento
Sono qui con lei…Stiamo pranzando insieme…Probabilmente un giorno non molto lontano penserò con profonda nostalgia a un qualsiasi istante di questo pomeriggio…ogni suo sguardo…ogni suo respiro…ogni suo gesto…E ora sono qui e non so che fare, lei non parla, sembra da un’altra parte…ho paura di cosa significhi questo incontro…ma come una valanga che vedo precipitarmi addosso non posso fare niente se non godermi gli ultimi respiri, naturalmente incosciente del futuro prossimo…è assurda la vita e io sono qui a scriverlo…ora la guardo leggere, la osservo con la coda dell’occhio mentre vorrei fermare il tempo…bloccare ogni secondo, non tanto per imprigionarla, ma per la paura del dopo…molto, troppo vicino…Non posso veramente fare niente…mi sembra che qualcosa ci sia…ma sono altrove o distratto da chissà quali altri pensieri, non riesco a vedere la soluzione… è qui…non può spegnersi così…non è già scritta la fine di questo racconto…
Closed eyes
Ricevo il vento sulla fronte. Sotto il vuoto. Il dirupo Saint Catherine riempie lo spazio tra me e la valle. La bruma non lascia vedere granchè ma conosco a memoria questo pezzo. E’ come un vinile che gracchia da trent’anni. Il vento fischia nelle insenature delle rocce. Ripete e ripete il suo sermone. Kropp non vuole che venga qui, dice che tutta questa aria non fa bene ai miei polmoni. Mi appoggio a quel che resta di un vecchio gelso e ascolto arrivare Alberto e suo figlio che si esercitano con l’orchestrina. Il suono li precede di molto. Alberto quando mi vede scuote la testa, ha appena dato uno scappellotto a Erik…deve ancora imparare molto per diventare buono come suo padre. La loro sonata veleggia sulla collina. Ci sono dei momenti che mi sembra di essere già andato e di aver vissuto la mia vita per intero.
Zoe
Camminiamo per le vie di una capitale europea. E’ mattina presto, la prima luce illumina le strade, sembra sia lei a far alzare le serrande dei negozi. Stiamo andando a fare colazione. Abbiamo dormito insieme. Per la prima volta. Mi sembra di sentire ancora il tuo viso appoggiato al mio braccio. Hai gli occhi addormentati sotto i tuoi Rayban anni ‘80. Ti prendo in giro per vedere se sei sveglia, continui a camminare, non ti giri e mi sorridi con un angolo della bocca. E’ il silenzio che preferisco, inerte, pieno di significati, capriccioso e un po’ egocentrico. Scegliamo, cioè scelgo un caffè sulla via principale. Adoro quando ti fai portare, quando ti lasci andare facendomi capire che ti fidi di me, anche nelle cose più piccole e insignificanti. Ed è così anche stavolta. Ti togli gli occhiali e cominci a sgranchire gli occhi sulle stampe di pittori francesi con le quali è tappezzato l’interno del locale. Mi abbracci con un sorriso bellissimo. Cappuccio e croissant per me, tu preferisci una spremuta. Ci mettiamo comodi sul divanetto. Appoggi la testa al cuscino dietro di te e ti faccio notare che la stoffa è dello stesso colore, vermiglione, dei tuoi orecchini. Li abbiamo presi al mercatino delle pulci l’altro ieri, due bigiotti d’oro smaltati di un rosso autunnale. Tiro fuori la Polaroid dalla borsa, per catturarti nella cartolina che intitolerò “Rosso Zoe”.
Violet
Violet. Violet confusa. Le accadde un giorno di ritrovare il proprio destino. Camminava trafelata tra le vie di Venezia. Un ponte ogni due passi, scalini da salire scalini da scendere, inciampo su inciampo coi tacchi troppi alti per vagare in una città turistica. Il vestito le stava piuttosto largo ma Violet non era un granchè e di certo non le importava parir bella più di tanto. Con l’umore non troppo gradevole, con l’alito che sa di vino rosso da quattro soldi. Ubriaca da far schifo a un marinaio, storta come un vecchio albero della cuccagna, purpurea come il corallo dei suoi orecchini. Sudore sulla fronte, sul collo, sudore profumato di rose, sudore in quella notte di fine agosto. Calle strette, calle illuminate a giorno, calle dappertutto. Il segreto è non perdere la pazienza, prima o poi sbuchi da qualche parte, una piazzetta, un mercato, una chiesa abbandonata. A Venezia ti perdi non appena giri l’angolo ma se sei abbastanza fuori da ascoltare il canto della città qualcosa di buono riesci a trovarlo. Ascoltare. Violet sorride a un tipo sulla soglia di un bar e si ritrova a raccontare come è finita in quella città fuori dal mondo, a parlare per ore alla luce fioca e ondulata delle tante piccole candele che ornano Il Vulcano Blu, il buco in cui si è ficcata. Lercio, marcio, olezzo sulfureo, satanasso malato, niente di buono, niente di più. C’è anche da considerare che la fanciulla in questione avesse vent’anni e scappasse dalla sua festa di compleanno. Fanculo. Poche parole e il sapore di una vita che avrebbe fatto l’ultimo giro, il più bello da lì a qualche ora.
Um café e um pastel de nata
Não há nada mais delicioso nem mais português do que um pastel de nata acompanhado de uma bica. O que é um pastel de nata? O que é uma bica?
Primeiro vamos começar com o pastel de nata. Muitos de vocês provavelmente já sabem do que estou a falar, mas para os que não sabem, o pastel de nata é o doce mais famoso de Portugal e provavelmente um dos mais deliciosos do mundo. No ano 2009 (na gravação eu faço um erro e digo 2019, mas o ano correto é 2009) a revista inglesa The Guardian colocou o pastel de nata na sua lista das 50 melhores comidas do mundo. E no ano 2011 o pastel de nata foi considerado uma das 7 maravilhas gastronómicas de Portugal. Mas de onde é que vem este incrível doce, e será que o podemos fazer em casa?
Antes de mais nada, o que significa pastel de nata? A palavra pastel significa um pequeno bolo feito com massa de farinha e outros ingredientes. Equivalente à palavra pastry em inglês. O plural de pastel é pastéis e o sítio onde se vendem bolos e pastéis chama-se pastelaria. A segunda parte do nome pastel de nata é nata. Nata é a gordura do leite, tem cor branca e é muito utilizada para fazer bolos. Em inglês diz-se cream.
Então como é que se fazem estes maravilhosos pastéis? Os principais ingredientes para fazer o pastel de nata são leite, farinha, ovos, açúcar e manteiga. São ingredientes simples e hoje em dia é possível encontrar várias receitas de pastéis de nata na internet e qualquer pessoa consegue fazer pastéis de nata em casa.
No entanto, fazer pastéis de nata é uma arte e os melhores pastéis de nata do mundo só existem num sítio. Este sítio chama-se Fábrica dos Pastéis de Belém, está localizado em Lisboa e é o lugar onde o pastel de nata foi inventado. Os pastéis de nata neste sítio chamam-se pastéis de Belém e a receita é a mesma desde que o pastel de nata foi inventado há quase 200 anos.
Para conhecermos a história dos pastéis de Belém, voltamos atrás no tempo para 1820, quando se deu em Portugal a Revolução Liberal. Antes da Revolução Liberal, o Rei detinha o poder absoluto e depois da revolução foi criada a primeira Constituição, o primeiro Parlamento e o Rei passou a ter menos poder. Seria necessário um episódio inteiro só para falar desta revolução e das suas consequências.
De volta aos nossos pastéis de Belém: uma das consequências da Revolução Liberal foi o encerramento de todos os mosteiros e conventos em Portugal, o que significa que os membros do clero ficaram sem trabalho.
O que é o clero? O clero é o conjunto dos sacerdotes ou membros responsáveis de uma religião. Em Portugal a religião principal é o cristianismo e os membros do clero eram os padres, os bispos, os frades, etc.
Ora depois do encerramento de todos os conventos e mosteiros de Portugal, os membros do clero ficaram sem forma de ganhar dinheiro. Então os frades de um mosteiro chamado Mosteiro dos Jerónimos começaram a fabricar pastéis feitos de gema de ovo e açúcar para vender à população. O mosteiro estava localizado numa zona portuária com muitos visitantes que chegavam de vários lugares do mundo, por isso, os pastéis rapidamente se tornaram famosos e foram um sucesso.
Desde esses tempos, a receita do pastel de Belém foi transmitida de geração em geração até aos dias de hoje e só os mestres pasteleiros que o fabricam artesanalmente é que sabem a receita.
Hoje em dia estes pastéis atraem milhares de pessoas todos os dias. Formam-se filas muito longas à porta e são vendidos cerca de 20 mil pastéis por dia. 20 mil! No Verão, este número chega aos 50 mil pastéis, o que é verdadeiramente impressionante! E a verdade é que, apesar da longa fila, o pastel de Belém é fantástico e vale muito a pena. Mas o que é que tomamos para acompanhar o pastel de nata?
Qualquer português que se preze vos dirá para acompanharem o pastel de nata com um café e alguns até vão a usar a palavra bica em vez de café. Aqui eu usei uma expressão engraçada: eu disse “qualquer português que se preze”. O verbo prezar significa respeitar, ter em consideração; e a expressão “que se preze” significa alguma coisa que tenha valor ou que mereça respeito. A expressão “qualquer português que se preze” poderia ser traduzida em inglês como any Portuguese worth their salt.
Voltando ao café, eu disse-vos que alguns portugueses usam a palavra bica para falar do café. Mas de onde é que vem a palavra bica?
Tal como o pastel de nata, o café surgiu em Portugal no século XIX e no início do século XX, em 1905 abriu em Lisboa um dos cafés mais emblemáticos do país chamado A Brasileira, que vendia café do Brasil. Ah, o que significa emblemático? Emblemático significa algo que é importante, que é icónico. Em inglês diz-se emblematic ou iconic.
Ora, existem 2 lendas para a origem da palavra bica. A primeira diz que quando o café chegou a Portugal, os portugueses achavam o seu sabor muito forte e amargo. Para dar a volta ao problema, no café A Brasileira foram colocados cartazes que diziam Beba Isto Com Açúcar. Ora, as iniciais de Beba Isto Com Açúcar, B-I-C-A, formam a palavra bica.
A segunda lenda também tem lugar no café A Brasileira, e segundo esta explicação o café era servido de uma torneira chamada bica. Por isso, quando os clientes chegavam ao café pediam café da bica e mais tarde passaram a pedir apenas uma bica.
Sabendo isto, significa que quando vocês vierem a Portugal e quiserem pedir um café basta pedir uma bica, certo? Infelizmente, não é assim tão simples e há muitos tipos de café em Portugal e agora vamos ver exatamente quais é que são os diferentes tipos de café que se podem servir em Portugal.
A primeira coisa que devem saber é que aqui em Portugal consideramos o verdadeiro café como um copo pequeno e forte, aquilo que é conhecido a nível internacional como expresso. Portanto, se pedirem um café ou uma bica o mais provável é que vos sirvam um expresso. Mas a bica não é o único tipo de café em Portugal.
Se vocês acharem a bica muito curta para o vosso gosto e quiserem a chávena de café cheia até cima, podem pedir um café cheio. Se quiserem o café servido numa chávena grande podem pedir um abatanado, ou então um americano, como é conhecido internacionalmente.
Se, por outro lado, quiserem umas gotinhas de leite na vossa bica, têm de pedir um café pingado, e se quiserem um café com leite servido numa chávena grande, então pedem uma meia de leite. Mas atenção, se quiserem o café com leite servido num copo e não numa chávena, então têm de pedir um galão.
Se tiverem dificuldades a dormir, o melhor é pedirem um descafeinado, que é um café com muito pouca cafeína. E se o sabor da bica for muito forte para vocês, então peçam um carioca. Um carioca é um café curto tirado com as borras de um café que já foi tirado anteriormente. Na prática é uma bica menos forte.
Finalmente, se quiserem uma bica com um pouco de álcool, basta pedirem um café com cheirinho, e é adicionado um pouco de brandy ou aguardente ao vosso café.
Bem, depois de falar dos pastéis de nata e de todos os tipos de café, fiquei mesmo com água na boca. Ficar com água na boca é uma excelente expressão para dizer que ficámos com um enorme desejo ou vontade de comer alguma coisa. Neste caso eu fiquei com água na boca porque fiquei com vontade de tomar um café e comer um pastel de nata. Portugues with Leo
Beau is afraid

The first time I saw it, I didn’t particularly like it. The opening scenes filled me with anxiety, and the confrontation with the daughter Toni disturbed me. It was all very confusing. How can it be the same director as Hereditary and Midsommar? Horror? It doesn’t seem so to me. He doesn’t know where to direct his career.
The second time was different. Because I hadn’t caught the subtle irony of the story. I didn’t understand the perspective being represented. Beau. It wasn’t clear to me that what is seen on screen isn’t necessarily happening “in reality” but in Beau’s mind. Or at least the events are filtered through Beau’s lens (his anxieties/fears; the sick relationship with his mother; his self-representation).
In the first delirious part, his worst fears come true: he runs out of water to take his pill, he loses his house keys, misses his flight, a poisonous spider enters his apartment, a horde of barbarians invades his apartment and destroys it, he is attacked by a serial killer on his street, he gets run over. So random.
In the second part, he is cared for by a loving family consisting of a doctor father, an ex-hippy mother, and a psychopathic daughter.